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NEOLUDICA propone in questa pagina incontri, interviste, presentazioni, 
di persone e progetti nell'ambito nel gaming, 
della gamification, 
delle nuove tecnologie per l'arte.

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Videogames:DesignPlayDisrupt
una mostra al Victoria&Albert Museum di Londra
articolo di Francesco Delrio 

Nella cornice del Victoria & Albert Museum di Londra è stata allestita una mostra dedicata al videogioco che nell’attraversamento di poche stanze racconta le mille sfumature del medium del terzo millennio. 
Videogames:DesignPlayDisrupt è il titolo di questa esperienza.



La mostra esplora il medium come espressione artistica, come espressione di pensiero, come espressione del genio. Ad accoglierci all’ingresso alcuni titoli che imbrigliano la natura poliforme del videogioco: da Journey, titolo appartenente alla categoria delle emotional experience, passando per The Last of Us, blockbuster di successo ed espressione del potenziale grafico concesso dai videogiochi, fino a No Man’s Ky, realtà indie che ha cancellato i confini dei mondi di gioco con la generazione procedurale del suo universo.



Giochi di contrasti tra prodotti con stili minimali e produzioni a grosso budget, tra gameplay elementali e interattività stratificata, tra esercizio squisitamente ludico ed esercizio narrativo.

Definito il contesto, la mostra apre ai grandi temi, riflesso della nostra società che si specchia in qualunque strumento essa utilizzi per esprimersi. E dunque ecco affacciarsi politica, sessualità, inclusività e discriminazione… violenza. Quest’ultima vede un’installazione interattiva sulla quale gira “A series of Gunshots”. Creato da Pippin Barr, il videogioco decostruisce le logiche degli sparatutto, ribaltandone la loro struttura: solitamente i giochi basati sulle meccaniche dello shooting tendono a spersonalizzare l’obiettivo colpito e a disinnescare quel meccanismo morale che fa esitare sulla pressione di un grilletto. A series of Gunshots pone invece l’accento su questi aspetti e li inserisce in un contesto civile e familiare, molto lontano dalle location di conflitto della maggior parte dei titoli del genere. Inquadratura fissa su delle abitazioni, un qualsiasi tasto della tastiera innesca uno sparo e il buio dietro una delle finestre si illumina. Qualcuno ha ucciso? Qualcuno si è suicidato? Ci si pone già più quesiti rispetto a un normale sparatutto. I videogiochi sono anche vittima di censura, e dunque questione politica, come nel caso di Phone Story, titolo satirico che gettava luce sui meccanismi nefasti dietro la produzione dei nostri smartphone rimosso dagli appstore Apple. I videogiochi, dicevamo, sono anche proiezione della società, con tutti i suoi difetti. Tra questi l’incapacità di fornire una visione scevra dalle discriminazioni, spesso radicate a un livello talmente profondo da non accorgerci degli ovvi paradossi. C’è voluta una personalità come quella di Anita Sarkeesian per mostrare al mondo come venivano ritratte le donne nella cultura pop videoludica. Le sue iniziative hanno acceso il dibattito, ampliatosi anche alle minoranze etniche, sempre subordinate a scelte di design fuse senza distinzione con spiacevoli dogmi.

Ma il videogioco è soprattutto possibilità e la sua versatilità è al servizio del cambiamento. Ecco che la mostra ci porta verso un’esplosione di espressioni del medium, con showreel che vedono mondi interi creati cooperativamente su Minecraft sfidando la fisica e l’immaginazione del suo ideatore, la dimensione delle fan art, un’intera sottocultura che con i videogiochi ha subito un’accelerazione senza precedenti. E poi gli e-sport che hanno acceso i riflettori su un’industria che vale quanto quella musicale e cinematografica messe insieme.

Chiude il percorso un’area di puro ingegno, dove le componenti analogiche e digitale sono dosate in più combinazioni. Sono presenti quindi titoli come QWOP che nella figura di un atleta mostra come dietro a doti del nostro corpo assolutamente sottintese come le capacità motorie si celi un complesso meccanismo di spinte ed equilibri, e poi il Line Wobbler di Robert Baumgarten, che dimostra come si possa creare un’intera esperienza ludica con una sola striscia di luci a led.













Un modello espositivo contenuto ma ricco dei maggiori spunti di riflessione a cui il videogioco può dare vita, DesigPlayDisrupt è un’esperienza che ci auguriamo venga riproposta in quante più occasioni possibili.


* anche le fotografie sono state scattate da Francesco Delrio, autore del brano.


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Intervista con Anna Cesaratto, italiana che lavora al MET, nel dipartimento di Ricerca Scientifica.
[Intervista di Luca Traini e Debora Ferrari]

Notturno al MET di New York

PROFILO DI ANNA CESARATTO

Anna Cesaratto, nata a Varese nel luglio 1986, ha conseguito la laurea triennale e specialistica con lode in Scienze e Tecnologie applicate ai Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Parma.
Un periodo di tironcinio presso la Science Section del Victoria and Albert Musuem di Londra, dove si è occupata dell’analisi dei pigmenti tradizionali in una serie di ritratti miniati inglesi del XV secolo, è stato cruciale per la crescita professionale di Anna, che ha deciso di continuare la sua formazione tecnico scientifica con lo scopo di poter lavorare come ‘conservation scientist’ in ambito museale.
Per questo motivo chiede ed ottiene una borsa di studio per essere ammessa al dottorato in Fisica Applicata presso il Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano. Il periodo di dottorato le consente di approfondire le tecniche per la carattarizzazione dei materiali usati dagli artisti nel corso dei secoli. Durante il dottorato coglie l’occasione di trascorre sei mesi presso il Dipartimento di ricerca scientifica del Metropolitan Museum of Art di New York, probabilemente uno dei laboratori piuù avanzati al mondo nell’ambito dello studio dei materiali dei beni culturali.
Anna Cesaratto: Irisis, Vincent Van Gogh (1889). Un team di scienziati del museo ha collaborato per identificare i pigmenti e coloranti usati dall'artista, scoprendo che il background che ora risulta bianco era originariamente rosa brillante
(C.Aponte Vazquez).

Una volta concluso il dottorato, nell’ autunno 2014, Anna rientra al Metropolitan Museum come Andre W. Mellon fellow. La sua attività di ricerca si concentra soprattutto sullo studio di coloranti sintetici con metodi innovativi che permettano di caratterizzare il colorante in un campione idi dimensioni microscopiche, invisibile ad occhio nudo. Questa attività viene in particolare applicata allo studio di stampe giapponesi del perido Meiji.
Dal luglio 2016 Anna è entrata a far parte del dipartimento di ricerca scienitifca come staff con un contratto di tre anni. In questa nuova posizione, si occupa di dare supporto scientifico agli altri musei dell’area di New York che non hanno accesso ad un proprio laboratorio interno.

Anna mentre utilizza uno degli strumenti (FTIR) comunementi usati per l'analisi dei materiali usati dagli artisti
per la realizzazione delle loro opere. (C.Aponte Vazquez).

INTERVISTA

Arte, scienza e tecnologia sono un trinomio inscindibile per la filosofia di Neoludica, non solo per quanto riguarda la produzione di opere nuove ma anche per la conservazione di quelle del passato.  Il tuo lavoro al Dipartimento di Ricerca Scientifica al Metropolitan Museum di New York è una preziosa simbiosi fra emozione estetica e rigore scientifico. Quali le motivazioni di questa avventura di frontiera fra due (o tre) mondi?
Quindi come sono arrivata a lavorare in questo ambito? Ho scoperto l'ambito della ricerca scientifica applicata ai Beni Culturali (Conservation Science) durante l'ultimo anno di liceo, quando stavo decidendo a quale facoltà iscrivermi. Ho sempre avuto passione per l'arte e per il restauro, ma allo stesso tempo ho sempre avuto una mente portata alle materie scientifiche, in cui scolasticamente eccellevo. Un corso di laurea che riuscisse a combinare questi due aspetti mi è da subito sembrato perfetto per me. Il conservator science analizza i materiali usati dagli artisti per creare le loro opere con lo scopo di preservarle per il futuro, studia le migliori condizioni ambientali per ogni specifica opera, mette a punto nuovi materiali per il restauro ed, a volte, supporta gli artisti nella realizzazione delle loro opere (come è successo per l'installazione di Pierre Huyghe per il rooftop del Metropolitan Museum del 2015).

Hai svolto il tuo tirocinio a V&AM e ora lavori al MET, due prestigiose istituzioni al più alto livello, ma la tua formazione è tutta italiana. Quanto ti è servita e quali le differenze di approccio e di lavoro fra l’Italia e i Paesi anglofoni?
Io vado molto fiera della mia solida formazione italiana. Il problema è che il Ministero dell'Istruzione ha creato un corso di laurea per il quale non c'è quasi nessuno sbocco lavorativo in Italia. Per questo motivo mi sono trovata in un certo senso costretta ad emigrare, per poter mettere completamente a frutto quello per cui avevo studiato per tanti anni. L'internship al V&A mi ha fatto scoprire cosa vuol dire fare lo scienziato all'interno di un museo, la sempre proficua interazione fra restauratori e storici dell'arte. Quella esperienza mi ha motivata a cercare uno sbocco lavorativo in ambito museale. Sbocco che ho trovato al Metropolitan Museum dopo tre anni di dottorato in fisica presso il Politecnico di Milano. La più grande differenza che ho trovato nei Paesi anglofoni è proprio questo spirito di collaborazione fra storici dell'arte, conservatori e scienziati, che è indispensabile per ottenere risultati utili alla conservazione delle opere. Spero che in un futuro questa mentalità si radichi di più anche in Italia: vorrebbe dire che il mio ruolo professionale sarebbe riconosciuto e che, magari, i direttori museali sentiranno la necessità di aprire laboratori scientifici nei loro musei.

Ci piacerebbe presentare al nostro pubblico le tue innovative ricerche sui coloranti sintetici. Si parte da dimensioni microscopiche e si approda a raffinatissime stampe giapponesi.  Puoi dirci qualcosa di questo affascinante percorso?
Con nanoparticelle d'argento e microgrammi di materiale stiamo cercando di capire il cambiamento socioculturale di un'epoca storica, il passaggio dal periodo Edo al quello Meiji in Giappone nella seconda metà del 1800. Quello che ci interessa non è il dato analitico fine a se' stesso, ma capire come la società giapponese, fino a quel momento ancora basata sulle sue antiche tradizioni, si sia aperta all'Occidente, e miriamo a farlo tramite le raffinate stampe giapponesi, dove dai coloranti della tradizione si passa agli sgargianti rossi e porpora, sintetizzati proprio in quegli anni in Europa. La stampa a colori era diffusa in Giappone da secoli, ed a livelli altissimi di espressione artistica, mentre in Europa sarà proprio con la metà dell'800 e con l'invenzione dei coloranti sintetici che la cromolitografia prenderà il via. Un' influenza reciproca?! 
In sintesi, può l'analisi dei materiali dare informazioni sul cambiamento culturale di un periodo storico di passaggio? Noi pensiamo di sì.

L’opera d’arte è sempre fragile e la sua originalità, che è sempre la dote più apprezzata, ha continuamente bisogno di interventi protettivi per dimostrarsi tale, specie agli occhi del grande pubblico. Non pensi che i restauratori siano anch’essi in un certo senso artisti della stessa bottega del primo autore? E la nostra epoca, spesso così vilipesa, con il suo amore per il restauro, non testimonia forse che i giovani sono in prima fila per fornire nuove ispirazioni dalla tradizione per una nuova arte?
Qui forse entra in gioco l'influsso anglosassone della mia formazione professionale: quando penso al restauratore, penso più ad un professionista che applica un metodo scientifico al suo lavoro, più che ad un'artista della stessa bottega del primo autore. Deve capire la materialità dell'oggetto ed in basa a quella la sua fragilità e poi applicare con metodo di rigore scientifico le procedure più adatte per rendere l'opera d'arte meno fragile e fruibile alle future generazioni. Il lavoro fatto al Met sull' Adamo di Tullio Lombardo da questo punto di vista è illuminante: il restauratore non opera da solo ma in un team con professionalità esperte in vari ambiti. 
Credo che in un momento di instabilità politica e culturale come quello in cui stiamo vivendo, dove le nostre certezza stanno venendo meno, si cerchino nel passato le proprie origini e la propria forza. Per esempio, i ragazzi della mia generazione sono nati in una nazione senza frontiere e si sentono europei di nascita, ma adesso questa realtà sembra essere messa in discussione: è destabilizzante. 
Non sono una storica dell'arte, ma credo che in un certo modo tutti gli artisti, anche quelli più d'avanguardia, abbiano guardato e guardino alle tradizioni artistiche del passato e ne riflettano dei dettagli nelle loro opere.  



Didascalie delle foto:

img_in alto: Il Metropolitan Museum of Art in versione notturna (A.Cesaratto)
Anna Cesaratto: Irisis, Vincent Van Gogh (1889). Un team di scienziati del museo ha collaborato per identifcare i pigmenti e coloranti usati dall' artista, scoprendo che il background che ora risulta bianco era originariamente rosa brillante (C.Aponte Vazquez).
Anna mentre utilizza uno degli strumenti (FTIR) comunementi usati per l'analisi dei materiali usati dagli artisti per la realizzazione delle loro opere. (C.Aponte Vazquez).

(C) (questo articolo non è riproducibile in nessuna sua parte senza il diretto e scritto benestare degli autori e di Neoludica alla parte richiedente)

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